Quante volte sarà capitato nella vita di tutti di ascoltare, pensare o dire, frasi come queste: “Non mi ha fatto una bella impressione”, “Mi raccomando, vestiti bene perché è la prima impressione quella che conta”. Tutti almeno una volta abbiamo avuto sensazioni positive o negative nell’immediato attimo seguente un incontro con una persona sconosciuta.

La prima impressione è un fenomeno che va ricondotto ad un’elaborazione istintiva e primordiale, davvero molto rapido, bastano solo 100 millisecondi di esposizione ad un volto per avere un’impressione su una persona.

Il focus di questo articolo è su un aspetto specifico che influisce sull’impressione generale: la morfologia del volto. Tra i fattori che collaborano ad essa ritroviamo l’arrossire, la grandezza pupillare, la direzione dello sguardo, la prosodia, informazioni olfattive, segnali vocali di pianto, contatto fisico sociale, la posizione della testa e certamente le espressioni facciali.

Ci sono alcuni fattori, peraltro non modificabili, che contengono informazioni che il nostro cervello ha imparato ad analizzare ed interpretare: vengono chiamati cue e ne fa parte la fisionomia del volto.

Ciascuno tenderebbe quindi ad associare a specifici tratti del volto tratti della personalità.

Le ragioni di questo fenomeno vanno ricondotte al bisogno di avere rapporti con l’altro, in quanto necessario alla nostra sopravvivenza anche se questo può essere molto pericoloso per l’essere umano stesso. All’interno di un continuo equilibrio tra la necessità dell’altro e la paura dell’altro, l’essere umano ha sviluppato vere e proprie strategie cognitive per assicurarsi la sopravvivenza, senza rinunciare ai rapporti interpersonali. Bisogna essere veloci nell’interpretare le intenzioni dell’altro e le sue capacità!

L’affidabilità di una persona e la sua potenziale aggressività (le intenzioni), le facoltà intellettive (per comprendere la capacità di mettere in atto delle intenzioni) e l’attrattività (la compatibilità riproduttiva) sono quindi gli elementi che estraiamo automaticamente.

Strettamente legata al concetto di aggressività è anche la dominanza, intesa come la volontà di controllare gli altri e può includere sia comportamenti aggressivi che non.

Sembra che un cue importante per la sua estrazione a partire dal volto sia il rapporto larghezza-lunghezza del volto, in cui c’è una maggiore estensione in termini di larghezza (Ward, 2016). L’associazione possibile tra questa caratteristica del volto e lo specifico comportamento dominante è la presenza del testosterone, ormone principalmente maschile che è sia alla base dei cambiamenti morfologici del volto maschile in età adolescenziale sia di comportamenti dominanti ed aggressivi.

Ci sono poi volti di persone di cui tendiamo a sottostimare le capacità, cioè “quanto una persona potrebbe concretamente mettere in atto determinati comportamenti”.

In gergo tecnico sono chiamate baby-faces: volti che non hanno sviluppato (del tutto) i tratti tipici dell’adulto e che quindi mantengono le caratteristiche morfologiche dell’infante, come occhi grandi e naso piccolo.

In questo caso l’assenza di alti livelli di testosterone influenzerebbe non solo la morfologia ma anche i comportamenti: sarebbe quindi associati capacità ridotte (età giovane) e una maggiore affettuosità / tenerezza.

Riguardo l’attrattività, è inevitabile imbatterci nell’errore di associazione tra ciò che è bello e ciò che è buono. Quando pensiamo a qualcosa di esteticamente bello o a delle azioni buone si attiva la stessa area celebrale: la corteccia orbitofrontale mediale, mentre l’area associata al disgusto, alla pena e alla punizione (insula) riduce la propria attività.

A questo punto risulta lecito chiederci se ci siano spunti di verità, ma soprattutto se esistono motivazioni fisiologiche, nonché evolutive, che ci spingono a percepire determinati tratti di personalità.

Possiamo fidarci oppure no della prima impressione? Il tema è davvero complesso!

Analizzando il tratto dell’attrattività, Rhodes nel 2005 ha dimostrato che esistono dei canoni universalmente riconosciuti come più attraenti rispetto ad altri: simmetria, dimorfismo sessuale (tratti estetici diversi tra uomini e donne) e averageness, termine che in inglese indica un volto comune, che si oppone ad un volto ricco di caratteristiche distintive.

Questi fattori individuati sembrerebbero essere associati ad una percezione di maggiore benessere dello stato fisico del partner, elemento determinante in termini evoluzionistici per scegliere un partner con cui avere prole.

Questo non ci deve però portare ad eliminare la parte soggettiva della percezione di attrattività: la ricerca di Little, Burt e Perret (2006) è un buon esempio di questa componente. Ogni persona ha un proprio ideale di personalità a cui si ispira nella valutazione dell’altro e coerente con ciò, da questa ricerca emerge che i volti considerati maggiormente attraenti erano i volti a cui si associavano le caratteristiche di personalità desiderate. Per cui, ciò che percepiamo in termini di personalità potrebbe portarci a percepire più attraente un soggetto rispetto ad un altro.

In merito alla dominanza, ci sono studi condotti su giocatori di hockey studenti e professionisti, che mostrano correlazione tra le caratteristiche del viso con i comportamenti aggressivi in campo, per cui a volti dominanti corrispondono maggiori azioni aggressive (Carrè e McCormik,2008).

Allo stesso tempo, dalla ricerca di Stirrat e Perrett è emerso che i soggetti con viso più largo assumevano comportamenti maggiormente pro-sociali verso il proprio gruppo rispetto a coloro che non possedevano questa caratteristica morfologica, nella condizione di competizione tra gruppi.

La spiegazione evolutiva data dagli autori è che i soggetti con questa caratteristica, in quanto percepiti dalle donne del gruppo come meno attraenti e più aggressivi, hanno bisogno di compensare questa percezione attraverso comportamenti di aiuto evidenti verso il proprio gruppo per potersi assicurare le simpatie sia delle donne che degli uomini.

L’idea è quindi che a causa di questa specifica morfologia, inconsapevolmente gli individui abbiano modificato il loro comportamento per contrastare la percezione che generalmente i pari hanno di loro.

Stesso discorso si può applicare ad una persona con baby-face: la ricerca di Zebrowitz, Andreoletti, Collins, Lee e Blumenthal (1998) ha smentito lo stereotipo che considera le persone con baby-face intellettualmente meno capaci in quanto risultano, al contrario, capaci di arrivare a livelli di istruzione più alti rispetto alle persone con volti adulti. Allo stesso tempo ci sono anche maggiori comportamenti di atti delinquenziali, in alcuni contesti, in opposizione alla percezione di affidabilità.

Inoltre, riguardo l’affidabilità sappiamo che una struttura del cervello specifica, ovvero l’amigdala traccia automaticamente l’onestà del volto che osserviamo. A maggior onestà percepita corrisponde una diminuzione dell’attività dell’amigdala. Ma quali caratteristiche deve possedere il viso per essere percepito come onesto non è ancora chiaro (Engell, Haxby e Todorov, 2007).

Non possiamo quindi dichiarare con assoluta certezza che il volto contiene in sé degli elementi predittivi del futuro comportamento.

All’interno delle risorse umane, l’influenza del volto nella prima impressione è poco studiata, anche se compare in letteratura lo studio di Naylor nel 2007 che traccia l’ipotesi per cui osservando un volto da una foto (vedi nel caso del cv) si possono trarre dei giudizi che si rivelano essere predittivi della performance reale del lavoratore.

Ma questo studio presta il fianco a critiche e repliche importanti, le conclusioni sono controverse.

Ciò che possiamo concludere, alla luce della complessità e mancanza di evidenze scientifiche, è che la morfologia del volto ha un impatto nel giudizio generale della prima impressione, tale consapevolezza è la chiave di una buona selezione in quanto solo essendo consapevoli della propria percezione iniziale e dei fattori che l’hanno causata ci si può porre in una posizione critica, che ci consente di avere un alto controllo sul nostro giudizio.

È fondamentale che chi si occupa di selezione non si fermi alla prima impressione, anzi, sia ben consapevole di questi meccanismi, e attivi un processo approfondito di conoscenza e valutazione del candidato.

Simona De Falco